La Fata del Fucino

Tanto tempo fa, dove regna la fertile terra del Fucino, c’era un grande e generoso lago dalle acque chiare, increspate lievemente da una brezza calda; chiuso in una pregiata conchiglia di monti dalle variopinte sfumature di verde; in un chiostro di pace e silenzio.

C’era una volta, con il suo volto glauco, ed ora non c’è più. Ma dai tempi dei tempi e per secoli il lago del Fucino è esistito e la sua voce si elevava verso il cielo accompagnando il cinguettio degli uccelli. E come tutti i luoghi da favola, una leggenda splendeva al sole con le acque limpide del lago. Si diceva che nelle più ingannevoli, abissali, misteriose caverne che si snocciolavano sotto le macerie della chiesa di San Salvatore, adiacente al monastero di Santa Maria di Apinianici, nelle terre appartenenti a Pescina, vivesse una strana fanciulla dall’età indefinita e dalla bellezza ambigua, conosciuta da tutti come la Fata del Fucino.

Un arcano velo avvolgeva la donna, e poco si sapeva di lei, se non che un insolito destino la costringeva a vivere da sempre, nel continuo vagare senza pace, nel suo rifugio durante il giorno, e mostrandosi ad occhio umano solo avvolta dalle tenebre.

Il popolo vociferava che ella fosse uno spirito irrequieto, condannato a vivere nel limbo in attesa del ritorno del suo amore, forse un pescatore morto tra le onde del lago. Altri, invece, la credevano un’antica eroina, vissuta e morta per difendere la contrada dagli usurpatori e graziata da Dio a non morire per continuare il suo compito in eterno.
Rimaneva di fatto che la Fata del Fucino aveva la capacità di apparire, nel corso della stessa notte, in vari punti della costa, dispensando, a seconda dei casi, ora eventi lieti, ora eventi luttuosi.

Quando in agguato c’era la gioia, la Fata si materializzava alla luce della luna in tutta la sua sfolgorante bellezza, con i lunghi capelli in balia della brezza; e la si poteva scorgere nuotare magicamente nelle acque trasparenti del lago, giocando con i cigni dai candidi piumaggi. E si udiva il suo canto melodioso e soave propagarsi per tutta la valle, avvolgendo tutto di pace e d’amore. Quando, invece, in arrivo c’era il dolore, il suo pianto echeggiava ogni dove e la sua figura curva si trascinava lungo la costa in preda all’agonia ed al tormento; e se il suo sguardo disgraziatamente si posava su un essere umano, la pena invadeva il popolano, facendolo precipitare nella disperazione.

Ma era la vita del lago, a volte felice, a volte spietata, e la Fata incarnava il corso del tempo che lambiva questo fazzoletto di mondo. Ma venne un giorno che il lago scomparve, le acque furono ingoiate dalla terra e la Fata del Fucino si chiuse nelle sue grotte, triste ed addolorata.
E per lei non ci fu più pace. I suoi canti d’amore scomparvero con le acque glauche del lago, e la sua voce si tramutò in un lamento lugubre, lento, profondo, di morte, che riempì la valle per giorni e giorni, angosciando il popolo spaventato. E dopo la Fata sparì, più nessuno potè scorgerla passeggiare, né udire i suoi canti che tanto sapevano rallegrare il cuore, prosciugata anch’essa con il lago.

Ma la leggenda è rimasta ed il suo pianto, alla vigilia di tristi eventi, si è sentito percorrere il Fucino, portatore di morte, in compagnia della voce notturna delle civette.

Eppure nelle sere nebbiose d’inverno, quando un gioco di ombre e luci fa risorgere il fantasma del lago che fu, chi ha la fortuna di attraversare la contrada, può imbattersi ancora in una giovane donna, dalla bellezza immortale e dagli occhi solitari e tristi, che contempla la valle intonando i suoi gioiosi canti d’amore. Ed allora la Fata del Fucino fa riaffiorare alla mente il ricordo antico di un misterioso lago dalle acque glauche, che c’era una volta ed ora non c’è più.

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