domenica, 8 Settembre 2024
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La forza dei faggi marsicani che sfidano il cambiamento climatico

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Collelongo  – È una faggeta marsicana ad essere protagonista di un importante studio condotto dal Cnr Isafom (Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo) e dall’Iret (Istituto di Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri). I ricercatori hanno esaminato una zona di bosco appartenente al comune di Collelongo a circa 1500m di altitudine, situata in un’area di confine tra Abruzzo, Lazio e Molise.

La ricerca evidenzia come alcuni faggi marsicani, colpiti da una violenta gelata primaverile, sono riusciti a coprirsi di foglie grazie all’utilizzo di riserve di carbonio immagazzinato tra i 5 e i 9 anni precedenti. Lo studio assume particolare rilevanza in relazione all’adattamento della flora agli attesi cambiamenti climatici che potrebbero colpire i nostri ecosistemi nei prossimi decenni.

Lo studio è iniziato nel 2016 quando un insolito inverno caldo aveva portato ad un anticipo della stagione vegetativa di ben 2 settimane, poi seguito da un’inattesa gelata, avvenuta tra il 25 e il 26 aprile, che aveva riportato i faggi indietro di due settimane, senza gemme e senza foglie. La temperatura registrata quella notte è stata di addirittura -6,5 gradi centigradi.

Nel giro di circa due mesi i faggi apparivano però nuovamente coperti di foglie, come se la gelata improvvisa non ci fosse stata, riuscendo a sopravvivere anche in assenza dei carboidrati da fotosintesi. I ricercatori hanno spiegato che questo è stato possibile poiché le piante accumulano carbonio per affrontare eventi avversi, come gelate o attacchi da parte di insetti, e in particolare con questa ricerca hanno mostrato, con precisione, a quando risaliva il carbonio utilizzato per affrontare la gelata. La datazione, fatta dall’istituto tedesco Max Planck, parla di carbonio accumulato fino a 9 anni prima, confermando la grande resistenza delle piante agli eventi avversi, che fa ben sperare in una loro risposta positiva ai cambiamenti climatici a cui andiamo incontro.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista New Phytologist.

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Angelo Zarini

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