Per chiarire l’approccio alla tema degli «scorridori di campagna», appena accennata nei saggi precedenti, può essere utile un’intricata vicenda tratta dalla documentazione d’archivio.
Lungi dall’aver raggiunto la stesura completa degli avvenimenti (si tratterebbe di fare uno studio in modo più omogeneo), la nostra ricerca ruota attorno alla domanda fondamentale sul perché la dinastia borbonica, già prima degli avvenimenti politici, sociali e militari degli anni 1798 e 1799, avesse costantemente dei problemi per controllare in maniera efficace la criminalità banditesca, particolarmente diffusa nelle province periferiche. Infatti, il governo napoletano, disponeva, almeno in teoria, di un esercito regolare, forze di polizia e apparato giudiziario: tutti strumenti capaci di reprimere la delinquenza in atto.
Una delle comitive armate più pericolose nel periodo trattato era quella dei fratelli Gaetano e Panfilo Pronio di Introdacqua, affiancata da Ferdinando Leone di Caporciano e Giovanni (o Nicola) Cellini di Raiano, detto «Sagristanello». Nel 1792 la banda stava terrorizzando la Valle Peligna e la Marsica, controllando i maggiori passi montani per sorprendere ricchi mercanti e commercianti che si recavano a Pescara, nel Casertano o verso lo Stato pontificio. Il 5 luglio dello stesso anno i banditi sorpresero «nella pubblica strada detta della Madonna delle Grazie» il ricco proprietario Don Giuseppe D’Arcangelo, suo fratello Francesco (sacerdote) e Don Pasquale Porreca (tutti di Bisegna). La rapina avvenne mentre i tre tornavano da Sulmona dopo aver trattato alcuni affari. Il bilancio del furto includeva: tre cavalli con selle, un orologio d’oro e due paia di fibbie d’argento. Lanciato subito l’allarme, l’ardito giudice Don Serafino Arcieri a capo di un gruppo nutrito di fucilieri, cercò di acciuffare i malviventi ma senza raggiungere risultati positivi. Il magistrato, tuttavia, ordinò alle università di Prezza e Cocullo di far presidiare da gente armata alcuni ponti e sentieri importanti, ma nessuno osò ubbidire per paura di terribili rappresaglie (1).
Alcuni giorni dopo, la banda al completo rubò altri due cavalli al garzone di Don Lodovico D’Arcadia «Locato di Foggia, della Terra di S.Sebastiano». Il povero servitore era stato incaricato di scortare Giovanni Macera di Pescina (cancelliere della curia vescovile), insieme a don Pietrantonio Petrei di Trasacco, ambedue invitati a soggiornare nel palazzo del ricco padrone. I ladri portarono via ogni cosa agli sfortunati viandanti: cavalli, briglie e persino i fazzoletti che portavano intorno al collo, per poi prendere la direzione di Ortona dei Marsi e Cocullo. Immediatamente, il regio tribunale di Pescina informò il preside Don Matteo Carrascosa, per mezzo del luogotenente Alessio Amicarella che, con il supporto di Don Luigi D’Arcadia, sottoscrisse il dettagliato rapporto all’autorità superiore, denunciando persino i marchi impressi sui cavalli con altri importanti particolari riferiti dal domestico. Per stroncare sul nascere la pericolosa e preoccupante azione banditesca, furono incaricati il marchese Giambattista Salomone (regio delegato straordinario) e il «bargello» Michele Diadei, capo della polizia di Tagliacozzo. In un clima di equivoci, false informazioni e finti allarmi, tutta la vicenda fu impregnata da continui contrasti e conflitti di competenze tra le forze di polizia (2).
La relazione del governatore di Acciano (Paolo Maria Scacchi), indirizzata alle squadre dell’Udienza aquilana (8 luglio 1792) chiarì parzialmente alcuni aspetti sui membri della banda. Oltretutto, si venne a sapere che il famigerato «Sagristanello» di Raiano aveva collegamenti con i banditi Domenico Occili e Pietrantonio Perna. Infatti, il capobanda Cellini trovò spesso rifugio nelle abitazioni dei due accoliti presso Acciano, luogo non distante dalle montagne di Roccapreturo, quartier generale della comitiva di ladroni. Inoltre, fu riferito al Preside che per passare inosservati, i banditi spesso vestivano come i birri e che nella bottega di mastro Francesco Giovanni ferravano i cavalli rubati. Nel frattempo, i pastori del posto riconobbero Ferdinando Leone e i fratelli Pronio. Il capo della provincia, proteso in questa gigantesca «caccia all’uomo», richiese la collaborazione anche dei governatori di Pescina e Scanno, allo scopo di assicurarsi «l’arresto e sterminio, e distruzione de’ Ladri, facendoli inseguire per ogni dove dalla forza armata». Tuttavia, accertata la grande mobilità della banda (poiché a cavallo poteva spostarsi da un territorio all’altro con facilità), il Preside mobilitò anche frati giurati e gli armigeri baronali per arrestare complici e fiancheggiatori tra cui furono annoverati: Michele Butigliano di Pescasseroli, insieme ai pratolani Nicola Scoppa, Nicola Candela e Giacomo Zarca. Tra la confusione generale e la forte rivalità tra le forze scese in campo, la sola nota positiva giunse dal fuciliere Nicola Caccavallo di Sulmona che, dopo aver inseguito la comitiva armata, riuscì a recuperare almeno le cavalcature dei ricchi fratelli D’Arcadia di S. Sebastiano e Bisegna. Tommaso Brogi, allora governatore di Pescina, anche lui proteso all’inseguimento dei banditi, riuscì a liberare un sacerdote dello Stato pontificio che tornava dal santuario di «S.Demetrio», già catturato dalla banda nei pressi di Cocullo «nella Forchetta sopra Carrito». L’ecclesiastico, scampato a sicura morte, ripassando per Cerchio denunciò l’intera vicenda al governatore di Celano. Il 15 luglio dello stesso anno, la mala sorte toccò ad Angelo Panella di Luco dei Marsi e ad alcuni garzoni che lo scortavano armati. Mentre stava tornando dallo Stato pontificio «dove erasi portato a vendere il pesce», si vide sbarrare la strada in prossimità di Canistro (Serra di S. Antonio) da «tre persone armate di schioppo, pistole e pugnali». Senza proferire parola i rapinatori li costrinsero a entrare in una fitta boscaglia per poi farli sdraiare tutti con la faccia a terra. Uno dei pescatori fece resistenza buscandosi, così, una coltellata. Tra i sequestrati si trovava anche Francesco Arioli di Cese, due uomini di Filettino e sette donne di Canistro, che si erano unite ai viaggiatori, provenienti dall’Agro romano dopo i lavori stagionali. I tre banditi furono: Domenicantonio Occili, Pietrantonio Perna e Berardino Volpe, appartenenti alla banda di Introdacqua. In quei frangenti nacquero dure contrapposizioni tra l’ufficiale di segreteria Domenico Antonio Farina, il «bargello» di Celano e i fucilieri dell’intera Marsica, provocando le ire dell’avvocato fiscale dell’Udienza aquilana Don Giovanni De Gemis. Alla fine, comunque, si trovò un accordo tra le forze incaricate alla repressione che decisero di organizzare imboscate presso l’osteria della «Quadranella» e nell’altra malfamata bettola situata tra Celano e Pescina. Le ricerche si estesero persino tra le mura del convento di S. Maria Valleverde, poiché sia i frati sia il capo della polizia celanese Ermenegildo Del Monaco, erano sospettati di connivenza con i fratelli Pronio. Intanto, le perlustrazioni proseguivano sul passo di Rocca di Botte, nella «Piana del Cavaliere», Carsoli, Oricola e nella «Macchia di Femmina Morta» nel tenimento di Forca Caruso. Insomma, una caccia a largo raggio condotta senza tregua da un capo all’altro della Marsica. Era evidente, come ben affermò in quei frangenti il capo della provincia, che la comitiva armata riuscisse a scampare alla cattura, soprattutto, per l’inefficacia delle forze di polizia. Infatti, non si poteva contare sulla fedeltà dei frati giurati, quasi tutti erano considerati vili e codardi, amici e conoscenti delle famiglie dei malviventi; neppure della soldataglia senza alcuna istruzione o preparazione come in realtà erano i fucilieri di montagna che, sovente, provocavano più danni degli stessi delinquenti; mentre quasi tutti i governatori dei paesi interessati non facevano che mettersi in cattiva luce l’uno contro l’altro. Finalmente, il 12 marzo 1793, dopo varie peripezie, la banda fu sgominata dalle forze pontificie che catturarono presso il confine del Cavaliere «il Sagrestano di Raiano», accusato poi di orribili delitti e i fratelli Pronio, arrestati sulla frontiera tra Filettino e Canistro. Tutti finirono nelle carceri aquilane, anche se, prima dell’emanazione della sentenza di morte, Gaetano Pronio riuscì a evadere e a far perdere le sue tracce, mentre alcuni elementi della banda, che avevano tentato anch’essi la fuga, furono riacciuffati e condotti davanti al boia (3).
NOTE
- Archivio di Stato di L’Aquila, Fondo del Preside, Affari Generali, Iª Serie, cat.27, b. 21, fasc.486.
- U.D’Andrea, Spirito pubblico, brigantaggio e operazioni militari in provincia di Aquila e nel Contado del Molise durante il periodo 1791-1806, Casamari 1986, p.74 sgg.
- A.S.Aq., Fondo del Preside, Affari Generali, Iª Serie, cat.27, b. 21, fascc.486-595. Occorre precisare che il futuro storico avezzanese, Tommaso Brogi, prese parte attiva alle inquietanti vicende banditesche, essendo nato il 3 aprile 1754.