La transumanza abruzzese tra abusi e reintegri durante la «Congiura dei Baroni» (1485-1486)

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Prima di esaminare altri dati importanti, occorre illustrare un essenziale aspetto della vita socio-economica della Marsica, rappresentato dalla pastorizia transumante, quando le faticose marce lungo i tratturi si ripetevano: «come un rito due volte l’anno nei due sensi: dai monti alla pianura, a ottobre; dalla pianura ai monti, a maggio. Le due usanze sapevano di celebrazione e rappresentavano un modello culturale emblematico della vita pastorale nella famiglia, nelle istituzioni, nella società» (1). Infatti, le condizioni climatiche con prevalente montuosità e clima rigido invernale, facevano assumere all’industria armentizia il carattere di allevamento transumante, basato sullo spostamento delle greggi dai pascoli dell’Appennino (tratturo di L’Aquila-Celano-Sulmona-Foggia, oltre duecento chilometri di lunghezza) a quelli complementari del Tavoliere delle Puglie nella stagione invernale, con percorso inverso in quella estiva (2). 

Attraverso l’esame del registro delle pecore ammesse in ciascuna «Locazione» esistono, in corrispondenza della stabilita stima degli erbaggi, dettagliati resoconti chiamati «Squarciafoglio». In essi si legge che nel 1592 il numero delle pecore indirizzate alla «Regia Dogana» ammontava a 3.502.627, anche se il passaggio obbligato sulle terre addette alla transumanza scatenava di solito delle furiose dispute, tanto che una «Prammatica» spedita da Madrid in Puglia (3 gennaio 1593) al presidente del «Tribunale della Camera», regolò infine una più giusta distribuzione dei pascoli per impedire così gravose imparzialità e «altre frodi usate da’ Doganieri nel tempo della Locazione generale» soprattutto per liberare i pastori dai soprusi dei «cavallari» (3).

Oltremodo, per agevolare i «Locati», furono immesse nuove leggi per il godimento «de’ Privilegi generali, e la stabilita esenzione della ordinaria giurisdizione de’ Giudici Baronali». Il provvedimento era stato necessario per la difesa dagli abusi dei feudatari e impedire così frodi di cui l’erario non sarebbe restato «privo di quella parte delle rendite della Dogana», poiché la corte di Spagna esigeva dal regno di Napoli: «nuovi soccorsi di denaro per supplire alle gravi spese delle guerre sostenute colla Inghilterra, e colla Francia». 

Era consequenziale, in questa situazione, lo scatenarsi di grandi dispute per il reintegro dei regi tratturi «quasi tutti occupati dalli Baroni, et Università del Regno, contro la forma delle Banni, decreti, et ordini Regii in grandissimo danno e prejudicio de detta Dogana, et della Regia Corte», poiché tra le maggiori entrate del regno c’era la dogana della «Mena delle pecore, che da varie parti di questo Regno calano ogn’anno nella Puglia». In questa azione multiforme, il doganiere Fabrizio di Sangro «cercò di ridurre la Dogana nello stato più florido, e felice; così per l’aumento delle Reali rendite, che pel maggior vantaggio della pastorizia, col rigore usato contra i Particolari Possessori degli erbaggi, che non osservavano esattamente la proibizione della segreta vendita» (4).

Tutto ciò si rifletteva sul grande patrimonio armentizio marsicano proveniente in massima parte dalle montagne del Sud-Est (Albe, Bisegna, Ortona, Gioia e Lecce nei Marsi, Collelongo e Villavallelonga), più quello assai consistente dell’Alta Valle del Sangro (Pescasseroli e Opi). Da questa profittevole attività i «Locati» traevano utili guadagni, anche se molti di essi erano spesso costretti a sfuggire alla vessatoria giurisdizione baronale ed ecclesiastica, per usufruire del foro privilegiato pugliese (numerose vertenze lo dimostrano ampiamente).

Alfonso I e Ferrante d’Aragona

Naturalmente, Alfonso I d’Aragona sebbene si fosse reso subito conto della fondamentale e indispensabile funzione dei tratturi, aumentandone la larghezza per acquistare i suoli necessari dai proprietari frontisti, provocò un lungo periodo di contrasti tra pastori ed ex proprietari. Si trattava dei baroni, sempre pronti a cogliere ogni occasione per rimpossessarsi delle terre che erano stati costretti a vendere alla Corona. 

Di conseguenza sia le «Universitas» che i feudatari, approfittando di trambusti e guerre, occuparono di nuovo i suoli venduti, con grave danno dei proprietari di gregge. 

D’altra parte, l’avidità degli ex possidenti sfidò qualsiasi severa normativa: la guerra delle ruberie e delle reintegrazioni durò dal 1508 al 1858. Era dunque prevedibile che Alfonso I, facendo prevalere gli interessi dello Stato, sequestrasse ai Caldora quasi tutte le terre per controllare l’accesso alla «via degli Abruzzi», in quanto, dopo l’imposta ordinaria del focatico e del sale, la «Dogana delle pecore di Puglia» era per tutto il regno la voce in entrata più consistente (5). Tuttavia, il rafforzamento dell’autorità regia fu ottenuto mediante l’immissione di una feudalità straniera e fedelissima alla Corona nei gangli vitali del dominio. In ogni modo, emergerà chiaramente la volontà regia di mantenere il controllo dei punti strategicamente importanti, nel bel messo delle guerre di successione che coinvolsero il regno di Napoli. Tra le terre confiscate ad Antonio e Giacomo Caldora nei turbolenti anni ’30 del XV secolo, c’erano anche la contea di Tagliacozzo e quella di Celano, passata in mano dei fedelissimi Piccolomini, una famiglia feudale extra-regnicola imparentata con la Corona che sostituì la secolare casata normanna dei conti di Celano. 

Per la stessa ragione anche Ferrante d’Aragona dal 1484 al 1494, condusse un braccio di ferro con i suoi baroni «filoangioini» appoggiati dal papa (Innocenzo VIII). In questo senso, i motivi che spinsero la feudalità regnicola a sollevarsi furono molteplici, tra cui il «susseguirsi di guerre che avevano svuotato tanto le casse regie quanto le tasche dei sudditi» (6). 

In conformità a tutte queste utili informazioni, che chiariscono solo in parte un periodo della storia marsicana molto travagliato, possiamo confermare la prevalenza di Albe nel 1601 che, alcuni secoli dopo, deteneva già la priorità dei capi di bestiame, lasciando in seguito, in un quadro di progressiva regressione della pastorizia, il primato a Pescasseroli: una supremazia infine ceduta a Gioia dei Marsi (oltre 36.000 pecore).

Si vedrà come la «Dogana» fu soppressa con le leggi napoleoniche del 21 maggio 1806, anche se il sistema integrato «tratturi-pascoli», con tutto quello che generò nel paesaggio delle regioni attraversate, seppe rispondere in maniera adeguata alle esigenze che lo avevano motivato, tanto da sopravvivere fino alle riforme post-unitarie e alle alienazioni compiute tra le due guerre e nel secondo dopoguerra.

NOTE

  1. N.Paone, La Transumanza. Immagini di una civiltà, Cosmo Iannone Editore, Isernia 1987, p.63. R.Colapietra, La Dogana di Foggia, Bari, 1972; Id, Vicende storiche e ordinamento della Dogana di Foggia fino a Carlo di Borbone, in «Rassegna di Politica e Storia», V (1959), n.57; G.Coniglio, La Dogana delle pecore di Foggia nel 1559, in «Archivio Storico Pugliese», XXII (1969); P.Di Cicco, Censuazione e affrancazione del Tavoliere di Puglia (1799-1865), «Quaderni della Rassegna degli Archivi di Stato», n.32, Roma, 1964.
  2. Manfredi Selvaggi F., Il paesaggio storico nell’ambiente della transumanza, in «La civiltà transumanza», cit., p.211.
  3. Lo Stato politico, ed economico della Dogana della Mena delle pecore in Puglia esposto alla Maestà di Ferdinando IV Re delle Sicilie, Tomo I, Napoli MDCCLXXXI, Delle Leggi del Viceré Cardinale di Granvela, pp.311-393.
  4. Poteri, relazioni, guerra nel regno di Ferrante d’Aragona. Studi sulle corrispondenze diplomatiche, a c. di F.Senatore e F.Storti, ClioPress, Università degli Studi di Napoli Federico II, Dipartimento di Discipline Storiche “Ettore Lepore”, 2011, pp.346-348.
  5. Ivi, A.Miranda, Dissoluzione e redistribuzione di un grande dominio feudale: il territorio dei Caldora, pp.103-116.
  6. Ivi, E.Scarton, La congiura dei baroni del 1485-87 e la sorte dei ribelli, p.214. Per una trattazione completa si veda: C.Porzio, La congiura dei baroni del Regno di Napoli, contra il Re Ferdinando I, Verona D.Tedeschi & Figlio Editore, 1888.

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