Nei circa venti secoli della storia del Lago di Fucino, si sono alternati studi scientifici, politici ma anche molti racconti infarciti di miti, leggende e opinioni non del tutto attinenti all’argomento.
Alcuni sottintendenti borbonici del distretto di Avezzano intrapresero studi e sopralluoghi intorno alle vicende cicliche del lago, mettendo in luce dissesti e i gravi problemi che ogni investivano le popolazioni ripuarie. Per questo, numerose petizioni inviate al re delle Due Sicilie, inoltrate per mezzo dei consigli provinciali suggerivano, dopo disastrose escrescenze, provvedimenti proficui per risolvere la secolare questione. Una delle più lucide relazioni tecniche fu svolta dall’attento e zelante funzionario borbonico Don Romeo Indelicato, che dal 1844-1846 amministrò la Marsica con fermezza (1).
La prima parte del suo lungo e diligente ragguaglio si intitola: «Origine degli allagamenti del Campo Marsicano per le acque del Lago Fucino, e della restaurazione dell’Emissario Claudiano ad impedirli», dove prende in considerazione l’inghiottitoio della «Petogna», colto nella disastrosa situazione del 1833, causata per colpa dei pescatori: «ora si vuole che i Fucinari quando molto scarseggiano di pescato producono a bella posta quella piena, otturando quanto più possono degli angusti meati che conoscono eglino con tutta precisione». Per il rappresentante governativo, occorreva subito ristrutturare l’emissario di Claudio, operazioni certamente costose ma pronte a salvaguardare le proprietà dei terreni intorno al lago, per restituire: «con usura gli ottantamila ducati già spesi, ed il 160 mila da spendersi, a risuscitare una delle più meravigliose opere latine».
A fronte di pareri contrari, favorevoli a un completo prosciugamento del lago, il sottintendente mise in guardia il governo napoletano, poiché, l’azione avrebbe causato l’allagamento della bassa campagna del fiume Liri e oltretutto: «inducesse il sommergimento della città di Sora, dell’Isola, e di altre terre, con rispettive campagne, attraversate dal Liri e dal Garigliano» (2). A questo punto, sfavorevole alle tesi di un prosciugamento totale, con dati tecnici e rilievi alla mano, passò a dimostrare, invece, la sostenibilità di un utilizzo del lago per scopi economici ben precisi, dopo aver consultato i «Registri degli affittuari del sesto Baronale della pesca, e dei rapporti dei principali e più probi interessati». Le sue risoluzioni, a distanza di secoli, rimangono davvero stupefacenti, soprattutto per le lusinghiere previsioni: «La cifra media della pesca annuale nel Lago è di oltre a cinquemilaottocento quintali legali di pesci. In Avezzano, che può dirsi il luogo della sua produzione, quel pescato si vende a prezzo medio nove grana a rotolo. Trasportati poi nel mercato di Napoli e Roma, da quei della Marsica, le tinche, ed i barbi del Fucino sono stati venduti fino a tre carlini il rotolo. Dato che il commercio distributore di quel prodotto a’ mercati di tutto il centro del Regno di Roma, aumentasse solo del doppio il prezzo dell’acquisto primitivo, renderebbe la pesca 93264 ducati annuali, i quali posti ad onesto guadagno corrispondono quasi a due milioni, che come fu detto possono sperarsi dalla vendita dei terreni del bacino del lago». Oltretutto, suggerì al governo di riappropriarsi del lago come prezioso demanio pubblico: «concedendo a’ Baroni l’equivalente della nettissima somma di duemila ducati, che frutta loro quel sì mal governato possedimento, e curasse a migliorarla per poco, troverebbe come fu specificato nella sua rendita, con grande usura, il necessario per restaurare il condotto Claudiano, per fare del Lago la più bella peschiera del mondo» (3).
In definitiva, le sue asserzioni erano nettamente contrarie a un totale prosciugamento del lago, prevedendo, di là dai «lucri materiali», il diffondersi di malattie deleterie, che avrebbero colpito «oltre ottomila abitanti nati e cresciuti o all’umido aere delle sue deliziosissime spiagge come sono gli abitanti di S.Benedetto e Venere, Collarmele, Cerchio, Aielli, Celano, S.Pelino, Avezzano, Luco, Trasacco, e Manaforno, o proprio dentro le sue acque, come sono quelli dell’isola di Ortucchio. È certo ancora che con il prosciugamento del Fucino si perderà lo specchio di riflessione della sua superficie, senza del quale o saranno comuni alla Marsica i geli e le nebbie di Rocca di Mezzo, o non potrà il suo clima come presentemente trovasi essere assai più dolce di quello dell’Aquila, la quale quanto la Marsica si eleva sopra il livello del Mare» (4). Proseguendo nell’attenta analisi, il sottintendente continuò a descrivere altri danni derivanti dall’intero disseccamento, specialmente quello della distruzione di un serbatoio: «di tutte le acque che nei mesi estivi dal Fibreno, dal Liri, dal Sangro, e chi sa da quante altre correnti scendono ad irrigare la Campania felice». Oltretutto, aggiunse: «e non credo che debba reputarsi danno di picciol momento quello di distruggere lo spettacolo ricreatore di quarantotto miglia quadrate di un mare di acque nitidissime potabili sulla cresta degli Appennini, nel secolo in cui l’uomo sente il bisogno di copiare per gravissime spese le bellezze della natura nei teatri, nei giardini, ed in altri luoghi di ricercamento ai travagli della vita».
Terminò il suo lungo rapporto, pubblicato nel 1846 dalla stamperia e cartiera del Fibreno a Napoli, affermando con risolutezza: «Mi sembra quindi di aver dimostrato che il Lago Fucino come proponeva al Consiglio Distrettuale dell’anno 1842, non si debba disseccare giammai. Avezzano, il dì ultimo di Aprile del 1845» (5).
NOTE
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Biblioteca Nazionale di Napoli (d’ora in poi B.N.N., Testo a stampa (moderno), Monografia, Inv. VA1, 1518355, Coll. V.F. 153K, 20 (0008), Note, 1 Opuscolo (in.v.misc), pp.12-15.
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B.N.N., Ivi, p. 18.
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Ivi, p.24.
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Ivi, p. 25.
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Ivi, p. 26.