Avezzano. Non solo attore, oggi alle luci della ribalta nazionale, ma anche uomo generoso e dal cuore grande. Stiamo parlando di Lino Guanciale, che per tre giorni ha abbandonato i panni da attore per viaggiare in Libano insieme a UNCHR – Agenzia Onu per i Rifugiati e conoscere i rifugiati siriani che lì hanno trovato accoglienza e assistenza. In Libano vi sono, attualmente, circa 1 milione e mezzo di rifugiati siriani in fuga dalla guerra e gli operatori dell’UNCHR, spesso anch’essi rifugiati, all’interno dei piccoli insediamenti creati ad hoc, stanno lavorando costantemente al loro fianco per assisterli al meglio e garantire loro una fantomatica normalità, senza mai perdere la speranza in un futuro felice. Lino Guanciale ha riassunto la sua “missione” in un diario di viaggio e noi l’abbiamo incontrato per farci raccontare in prima persona questa importante esperienza.
Come nasce l’idea di un viaggio in Libano insieme all’UNHCR e qual è stato l’obiettivo della tua “missione”?
L’idea è nata circa un anno fa quando l’UNHCR mi ha proposto di diventare loro testimonial e ovviamente ho detto subito di sì, perchè credo che quella dei rifugiati sia un’ emergenza culturale centrale nella nostra epoca. Intorno al tema dell’accoglienza dei migranti e poi soprattutto dei richiedenti asilo ruotano tanti temi inerenti la natura della nostra società e i suoi recenti e sempre più preoccupanti sintomi di involuzione culturale nel senso nazionalista. Quando appoggiai questo progetto, oltre alle campagne da sostenere qui in Italia per aumentare iscrizioni e finanziamenti, vi era anche la proposta di fare delle missioni nelle basi più importanti e difficili nel mondo dove l’UNHCR svolge la propria attività di sostegno e tutela dei rifugiati. Il mio obiettivo è stato quello di produrre documenti video, fotografici e anche un diario che rendesse conto del mio punto di vista emotivo e razionale sulla situazione dei rifugiati siriani in Libano per riuscire a sensibilizzare ulteriormente la popolazione italiana su questo fronte. La missione ha funzionato e i video prodotti sono stati molto seguiti su internet. Da poco l’UNHCR si è approcciata a questi metodi e infatti rappresenta una realtà molto seria, che ha sempre pensato a far bene il proprio lavoro. Questa loro purezza dal punto di vista mediatico mi ha molto affascinato e convinto a far parte della “squadra”.
Tanta la commozione che trapela dal tuo diario di viaggio; c’è stato un momento in cui ti sei sentito a disagio e ti sei chiesto “cosa ci faccio qui”?
I momenti in cui mi sono sentito inadeguato o in cui mi sono chiesto se fosse stato utile essere lì, effettivamente sono stati tanti. Quando mi trovavo negli insediamenti dei rifugiati parlavo anche di me, di quello che facevo in Italia e regolarmente capitava che i bambini e anche gli adulti volessero vedere sul telefonino cosa avessi fatto e spesso, ridendo, mi chiedevano “ma chi te l’ha fatto fare di venire qua?” ed effettivamente quando me lo dicevano non sapevo bene cosa rispondere. Da un certo momento in avanti ho iniziato a rispondere che la “gente vede i miei video” e che quindi avrebbe conosciuto la realtà in cui vivevano e che avrebbe fornito maggiore aiuto. Quando davo tale risposta in genere mi offrivano un caffè o un thè (ride ndr), insomma la ritenevano una buona risposta, ma il senso di impotenza nello stare lì è enorme e quindi bisogna aggrapparsi al fatto che la presenza in quelle realtà possa costituire un utile per loro.
Toccante vedere paragonato il Libano al nostro Abruzzo….
Quando il presidente della centrale operativa della Valle di Beqà, per spiegarmi meglio la situazione, ha paragonato l’area del Libano alla mia regione, ha reso il tutto molto più chiaro a livello personale. Pensare ad un’area grande come la nostra regione così sovrappopolata di persone con richieste di asilo, in una condizione di marginalità fortissima, dà anche la misura esatta di quanto sia grave il problema per il governo libanese, ad esempio, o anche per i libanesi stessi. L’accoglienza di così tante persone è gravosa sia in termini morali oltre che materiali. Lì loro sono stati estremamente efficaci per molto tempo per poi entrare in enorme difficoltà successivamente. È stata anche una scelta del governo stesso, che ha posto delle forti limitazioni ai rifugiati. C’è ad esempio il divieto di fare dei campi profughi fissi, il divieto per i siriani che arrivano lì di fare certe professioni. In Libano possono fare soltanto i camerieri, i contadini o i muratori. Eppure questo non scoraggia la fiumana umana che vi si riversa, in quanto storicamente tra i due popoli c’è sempre stata amicizia, perché gli atri confini siriani sono molto più difficili da valicare e molto più rischiosi. L’emergenza umanitaria è forte, sia dal lato siriani sia dal lato libanese. Diciamo che l’atteggiamento del governo libanese non è un modello di accoglienza efficace.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza? Ti senti cambiato in qualche modo? C’è qualcosa che ricorderai per sempre?… sicuramente speri di tornare presto..
Sicuramente spero di tornare presto come spero presto di fare altre esperienze come questa in altri luoghi del mondo insieme all’UNHCR, anche per vedere come la stessa emergenza venga affrontata in posti non più lontani di quanto il Libano non sia da casa nostra e verificare, per esempio, in un luogo dell’Africa, come l’Uganda, come l’emergenza profughi venga affrontata con enorme differenza qualitativa sia da un punto di vista materiale che morale, rispetto a come avviene in Libano. L’Uganda rappresenta un modello di accoglienza importante, ma anche il Libano ha fatto molto di più di quello che poteva con circa un milione e mezzo di rifugiati per circa cinque milioni di abitanti. Se ciò fosse accaduto in Italia, in proporzione, sarebbero arrivati più di dieci milioni di rifugiati. Oltre agli aspetti più personali che restano da questa esperienza, tali da non riuscire nemmeno io, ancora ad esso, ad individuarli al meglio, mi resta e mi resterà il pensiero con il mio paese, il paragone con l’atteggiamento che ha l’Italia nei confronti del più generale tema del dialogo interculturale, estremamente problematico, più di quanto ci rendiamo conto. È l’atteggiamento elementare nei confronti dell’altro che, da noi è, credo, sensibilmente arretrato rispetto ad altre realtà. Non riusciamo ancora ad entrare nell’ordine di idee che persone che arrivano con queste difficoltà abbiano perfettamente diritto a trovare posti dove riuscire a stare perché a casa loro gli sparano. Mi dà speranza il fatto che iniziamo a fare dei corridoi umanitari anche con la Libia. Mi auguro che il nostro atteggiamento cambi presto, anche se non è incoraggiante il fatto che una legge importante come quella dello “ius soli” giace inevasa, come pratica, in Parlamento. Ecco a cosa penso: penso a quanto abbiamo ancora da fare noi.
Pensi e speri che tutte le persone che hai incontrato possano tornare al più presto alla normalità? Credi sia possibile?
Questa è una domanda che ho fatto a tutti i rifugiati che ho incontrato. Tutti sperano di tonare a casa loro, in Siria, prima o poi. Molti non sanno quando lo faranno, alcuni, quelli più lucidi, sperano di farlo in 10 anni, dicendo che “ se la guerra finisse oggi e si installasse qualsiasi forma di governo, ci sarebbe una lunga fase di stabilizzazione e quindi credo che ci metterei 5 o 10 anni a rientrare a casa”. Ho incontrato tutte persone consce del fatto che sarà molto dura tornare a casa e questo fa un’impressione straziante perché è lì che ti riconosci più vicino a queste persone. Se dovesse capitare a me, da un giorno all’altro, non poter tornare più a casa mia, perché me l’hanno bombardata, dover ricominciare in un posto dove nessuno o pochi mi accolgono o dove mi si impedisce di fare quello per cui ho studiato , come farei? A ripensarci la commozione arriva facile. Cosa farei io al loro posto? come mi sentirei? Quando si fanno queste esperienze non si può far altro che immedesimarsi nelle persone che si incontra e non è una sensazione che passa o ci si toglie di dosso facilmente.