Offese su Facebook, condannata a 4 mesi impiegata di banca

Avezzano – La Suprema Corte di Cassazione con sentenza del 21.01.2021, ha confermato la condanna alla pena di 4 mesi di reclusione, a carico di una dipendente di una banca di Avezzano, difesa dall’avvocato Giuseppe Montanara, del Foro di Roma, per il reato di diffamazione aggravata commesso ai danni di una donna, difesa dall’avvocato Crescenzo Presutti. L’assistita di Montanara, a partire dal mese di agosto del 2011, aveva pubblicato sul profilo personale della propria pagina facebook una sorta di lettera “aperta”. Il testo, nel corso dei mesi successivi, veniva a più riprese integrato, rimosso e poi ripubblicato a partire dal 19.11.2011, con un nuovo titolo e continuamente rimaneggiato con sempre maggiori contenuti offensivi, con pubblicazioni fino al 20.02.2012. Per questi fatti era stata tratta a giudizio dinanzi al Tribunale di Avezzano ed era stata condannata con sentenza n. 419/2018, poi confermata dalla Corte di Appello di L’Aquila.

La Corte di Cassazione nel confermare la condanna inflitta nei precedenti gradi di giudizio ha stabilito che l’imputata potrà beneficiare della sospensione condizionale della pena solo previo pagamento dei danni subiti dalla parte civile e l’ha condannata al pagamento delle spese legali (€ 3.000,00) oltre al pagamento della somma di € 3.000,00 in favore della cassa delle ammende. In primo grado, il Tribunale di Avezzano aveva condannato l’imputata al pagamento di una provvisionale di € 2.000,00 in favore della parte civile e alle spese legali liquidate in € 1.800,00 mentre la Corte di Appello l’aveva condannata al pagamento di ulteriori € 2.000,00. Complessivamente, quindi, oltre ai quattro mesi di reclusione, dovrà sborsare una somma di oltre € 15.000,00 che potrebbe ulteriormente lievitare in caso di ulteriore condanna dinanzi al giudice civile.

Gli Ermellini della quinta sezione penale, nel confermare le decisioni rese nei precedenti gradi di giudizio, hanno respinto il ricorso dell’imputata che aveva sempre sostenuto la propria innocenza per due ordini di motivi: la mancata indicazione del nominativo della persona offesa e la omessa verifica, da parte degli organi inquirenti, dell’indirizzo IP associabile al profilo avente il nickname dell’imputata e nel reperimento dei cd. file di log, questi ultimi contenenti tempi e orari della connessione. Il Tribunale e la Corte di Appello di L’Aquila, invece, avevano ritenuto che la paternità del messaggio diffamatorio fosse sufficientemente provata ed addebitabile all’imputata e che la destinataria delle offese fosse D.D.A., sulla base di alcuni indizi ritenuti gravi e concordanti: la denuncia della persona offesa con l’allegazione delle stampe della pagina social su cui erano contenute le espressioni incriminate; la denominazione del profilo, riportante proprio il nome e cognome dell’imputata; la natura dell’argomento trattato nei post incriminati riferibili comunque all’imputata; la circostanza che non risultasse che la stessa avesse mai lamentato che altri avessero usato il suo nome e cognome abusivamente, né avesse mai denunciato alcuno per furto di identità.

Per i giudici, l’esatta individuazione dell’indirizzo IP relativo al profilo da cui sono state divulgate le espressioni diffamatorie non è quindi elemento imprescindibile per giungere ad una corretta individuazione, ai fini della punibilità, dell’autore del reato di diffamazione commesso a mezzo Facebook. Nel processo penale la riconducibilità delle espressioni diffamatorie contenute sul sito Facebook al loro effettivo autore e, pertanto, la rimproverabilità per il reato diffamatorio, non prevede quale elemento essenziale l’identificazione dell’ indirizzo IP e dei file log né la necessità che sia espressamente indicato il nome della persona offesa potendosi risalire comunque al destinatario delle offese attraverso le testimonianze di coloro che, leggendo lo scritto offensivo, lo reputino riconducibile alla persona offesa, anche se non nominata.

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