Pescina, marzo 1923: «noi sappiamo di essere tutti fascisti compresi i bambini»

Anche se le forme di organizzazione istituzionale e statale della comunità marsicana stavano variando nel tempo: uomini, forze, ideali, metodi, interessi diversi e contraddittori erano ormai confluiti nel profondo «delirio della destra nazionalista».

Questo mutamento della struttura sociale nella Marsica fece scontrare capitalisti (vedi Torlonia), borghesi e proletari, monarchici e repubblicani: «democratici e antidemocratici, socialisti e antisocialisti, liberisti e protezionisti, massoni e antimassoni, clericali e anticlericali», personaggi dalle più diverse origini e dai più disparati interessi e programmi zonali (1).

D’altra parte sulla stampa fascista regionale emergevano posizioni diverse e contrastanti sui programmi di Acerbo, Sardi e Paolucci, anche se quel che importava al movimento forse: «era la sua parte negativa». Infatti, ciò che contraddistinse il fascismo squadrista, era il suo carattere regionale, provinciale, addirittura locale, come stiamo evidenziando nelle drammatiche cronache marsicane. Quest’aspetto si incontra altresì nelle testimonianze di Giuseppe Bastianini che, tra l’altro, nel 1923 affermò: «Il Fascismo fu fenomeno provinciale e come tale prese aspetti diversi a seconda delle esigenze immediate dei paesi dove cause diverse lo generarono e mentalità differenti lo crearono» (2).

Conferma il suo assunto lo storico De Felice: «Più che un movimento e successivamente un partito, era un’unione di realtà locali, spesso minate – come dimostreranno gli avvenimenti del 1923-24 –da profondissime rivalità latenti, legate a singoli uomini e alle varie situazioni locali». Tanto è vero che questa situazione, rappresentò spesso una causa di estrema confusione anche per tutto il movimento marsicano senza strutture proprie, identificate, tuttavia, con quelle dei temibili squadristi (capi locali e provinciali come Enrico Panfili, Vico Della Bitta, Ciro Cicchetti e Luigi De Simone), i cui interessi coincidevano solo parzialmente con quelli del movimento nazionale. 

Oltre lo sfondo socio-politico, che era eluso secondo le circostanze, a metà marzo del 1923 l’amministrazione comunale di Pescina si trovò ad affrontare: «tutti i problemi indispensabili per la rinascita del paese, ma si è poi trovata a disagio per le grandi difficoltà frapposte dal Governo sia intorno al finanziamento di tutte le opere riguardanti le ricostruzioni degli edifici, sia intorno all’esame del bilancio preventivo del Comune».

Di fronte a tali enormi difficoltà, il consiglio comunale rassegnò le proprie dimissioni, affermando con risentimento che solo la città di Avezzano, grazie ai suoi potenti sostenitori, era riuscita ad avere «tutto quello che vuole, Palazzo comunale, palazzo di Giustizia, edifici per le scuole tecniche, per le scuole normali, per quelle ginnasiali ecc.ecc.».

Mentre, importanti e delicati servizi come l’acquedotto, la ricostruzione del camposanto, quella degli edifici scolastici per la scuola tecnica e il necessario trasporto dei viaggiatori da San Benedetto-Pescina-stazione ferroviaria «la cui linea stradale è di chilometri dieci che i viandanti non possono fare a piedi», rimanevano progetti incompiuti. Appena insediata la nuova amministrazione comunale, condotta dall’energico sindaco Salvatore Migliori (comandante prima centuria) e dall’assessore Goffredo Taddei (avvocato), Gaetano Di Muzio (ingegnere), Giovanni Tarquini (conte) e Francesco Forte, tutti fedelissimi al fascio littorio, deliberò apertamente che era disposta a qualunque sacrificio, purché il governo prendesse in considerazioni le «infelici condizioni di Pescina, tanto rovinata dal disastro tellurico».

D’altronde, correva voce «che tutti questi torti si facevano solo a Pescina perché qualche sobillatore siasi permesso di descrivere il nostro paese come antifascista» (firmò l’articolo, pieno di altre considerazioni, il corrispondente Secondo Sambenedetto). Oltretutto, la giunta scrisse a Mussolini, smentendo ogni maligna allusione, poiché l’intera cittadinanza amava e propugnava il «Fascio». Infatti, non esisteva in paese un partito popolare, né socialista «né di altro colore, e guai alle pecore nere!».

Appoggiandosi anche alla persona dell’onorevole Sardi (votato dai pescinesi come rappresentante politico della Marsica), s’invocò la protezione del governo affinché si prodigasse alla rinascita dell’antico borgo, in quanto: «Noi sappiamo di essere tutti fascisti compresi i bambini, ed attaccarci fedelmente ai nostri governanti» (4).

Con l’aiuto di questi interessanti rilievi di carattere cronachistico, possiamo individuare altri avvenimenti che danno un quadro d’insieme della Marsica.

A metà marzo dello stesso anno, venne soppressa la carica del regio commissario del terremoto (Alfredo Angeloni), delegando con pieni poteri alla smobilitazione dell’importante ufficio, Gaetano Martegiani (5).

Per «indegnità documentata», venne espulso da una commissione d’inchiesta il maestro Mario Di Crescenzo, cui i fascisti augurarono che facesse «la fine di qualunque cane rognoso». In proposito, il giorno 15 marzo 1923 fu indetta ad Avezzano l’assemblea straordinaria dei maestri marsicani per ricostituire l’intera sezione mandamentale. Il punto principale della riunione, purtroppo, fu la ben nota «Definizione del caso Di Crescenzo», presentata ai membri del consiglio direttivo della federazione magistrale che annullarono il precedente «giudicato della Commissione Esecutiva», rinviando il maestro al giudizio della propria sezione. Ritenuto persona invisa e maligna da tutto il corpo docente e dai fascisti, l’insegnante doveva essere destituito e allontanato, già riconosciuto capo di un’ignobile cricca di «arrivisti e facinorosi», depurando così una classe magistrale che aveva nel suo seno «pur tante belle e nobili tradizioni».

Aggiunse Il Mattino, occupandosi dell’espulsione del maestro: «Sappiamo che il signor De Crescenzo, che del resto ieri non è andato a difendersi come ne aveva il dovere, ritiene invalida e di nessun effetto giuridico la deliberazione presa nei suoi riguardi. Chi sa ch’egli non pensi alla Commissione Esecutiva, sperando di essere assolto?»  (6).

A metà marzo del 1923, l’onorevole Raffaele Paolucci raggiunse l’ambita carica di «Alto Commissario Fascista per l’Abruzzo e Molise», titolo annunciato dalle pagine de Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise che ormai era diventato «Giornale ufficiale del Partito Nazionale Fascista». Dopo aver ricevuto le congratulazioni di tutti i sindaci marsicani, rispondendo al saluto dei fascisti abruzzesi e molisani, tenne a precisare subito alcuni punti essenziali del suo nuovo incarico, scrivendo sulle pagine del giornale: «Si crede da alcuni dei vostri che essere fascisti significhi godere l’impunità nella sopraffazione e nella violenza. Costoro s’ingannano».

La notizia pervenne a Giacomo Acerbo (luogotenente generale, comandante dell’undicesima zona) e ad Alessandro Sardi (console generale, comandante del gruppo legioni Ovest), ambedue appoggiarono la sua importante carica: «espressione purissima dai sacri intendimenti patriottici». In contrasto con la violenza squadrista, che mirava a eliminare avversari politici senza alcuna remora, l’eroe di Pola (ricordiamo che nella prima guerra mondiale aveva affondato la Viribus Unitis, nave da guerra austriaca), sostenne invece un’assoluta «disciplina, che è la virtù dei forti e puri», parteggiando per un «fascismo patriottico».

L’avezzanese Giuseppe Giffi, ben noto nei circoli giornalistici (un anno prima aveva ribadito la sua fedeltà a Camillo Corradini), con l’approvazione di Giacomo Acerbo e Alessandro Sardi, divenne capo del suo ufficio stampa, promettendo una ferrea ottemperanza dei suoi corrispondenti, tutti iscritti al partito nazionale fascista. Egli affermò che, durante la grandiosa opera di ricostruzione nazionale: «Le piccole beghe di campanili, le vendette dei signorotti camuffati da fascisti, le smanie degli arrivisti, le violenze degli eroi della sesta giornata, tutti questi sporadici episodi che, nella nostra terra, si registrano sulla punta delle dita, non possono infirmare la bontà dell’idea, oscurare la nobilissima tradizione del fascismo abruzzese, tener lontani da esso coloro che, per la loro fede indiscussa, possono e debbono entrare nei ranghi. Raffaele Paolucci eliminerà, con la mano che sa le tempeste, tutti gli inconvenienti. Accanto al glorioso Fascio Littorio deve aleggiare un’atmosfera di pace, di confidenza, di amore. Raffaele Paolucci deve riunire, e riunirà, sotto la sua grande bandiera sulla quale brilla una medaglia d’oro, tutti coloro che amano sinceramente la Patria» (7). Nel bollettino ufficiale numero sei, risulta che l’avezzanese Tullio Tempesti fu nominato dallo stesso Paolucci: «Membro della federazione Provinciale Fascista della Provincia dell’Aquila»; mentre Edgardo Bonacina e Raffaele De Simone Niquesa, entrarono a far parte del «Direttorio della Sezione Fascista di Avezzano» (8). 

Alla fine di marzo, la popolazione aquilana accolse trionfalmente «l’Alto Commissario fascista» e gli onorevoli Acerbo e Sardi in una grandiosa adunanza «al grido di Eja, Eja, Alallà». All’adunata furono presenti le massime autorità marsicane, con in testa il sottoprefetto De Feo. Accanto a lui si distinsero gli avvocati Rodolfo Ludovici e Cesidio De Vincentiis, poco distanti dal prefetto Giuseppe Sallicano (9).

Oltre alle innumerevoli vicissitudini politiche in continua evoluzione, altre notizie che suscitarono l’approvazione di importanti personaggi fascisti, riempirono le cronache giornalistiche della Marsica (4-8 marzo 1923). La nobile famiglia avezzanese dei conti Resta, promosse un’iniziativa considerevole, finalizzata alla sottoscrizione di raccolta fondi, per costituire il «Teatro Dialettale Abruzzese». Il commediografo e drammaturgo conte Alessandro Resta «autore fortunato con i suoi Eredi di Circe e padre orgoglioso di una Cecilia Metella, dramma poderoso che avrà l’onore di essere interpretato da una delle prime compagnie italiane», insieme a Carlo D’Aloisio (notissimo pittore abruzzese di Vasto), si impegnò ad organizzare le rappresentazioni dialettali, i cori e i balli, appoggiato dall’onorevole Giacomo Acerbo, che ottenne dal sottosegretario alle Belle Arti: «i costosissimi costumi abruzzesi». Mentre, il potente casato di Avezzano:«seguendo le munifiche tradizioni aristocratiche della sua famiglia, ha messo a disposizione i suoi saloni di Piazza del Gesù a Roma, ove chiameremo a convegno i giovani e le signorine che vorranno coadiuvarci nella non facile impresa» (10).

 

NOTE

  1. R.De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Giulio Einaudi editore, Torino 2019, p.115.
  2. G.Bastianini, Rivoluzione, Roma 1923, p.30. Al momento era console generale della milizia volontaria, nell’aprile del 1924 fu eletto deputato.
  3. R.De Felice, cit., p.116.
  4. Il Risorgimento d’Abruzzo e Molise, Anno V – Num.303 – Roma, 25 Marzo 1923.
  5. Ivi, Anno V – Num.301 – Roma, 18 Marzo 1923.
  6. Ivi, Anno V – Num.298 – Roma, 8 Marzo 1923, Corriere di Avezzano.
  7. Ivi, Anno V – Num.301 – Roma, 18 Marzo 1923; Num.302, Roma, 22 Marzo 1923; Num.303 – Roma, 25 Marzo 1923. In basso, accanto al comunicato ufficiale della nomina di Paolucci, si nota una fotografia di Nardelli con didascalia di solidarietà indirizzata al sindaco di Avezzano (già professore di Ginnasio), stimato da tutti i suoi concittadini che lo vedevano come «una fiaccola vivente delle più nobili finalità patriottiche».
  8. Ivi, Anno V – Num.308 – Roma, 12 Aprile 1923, Bollettino Ufficiale N.6.
  9. Ivi, Anno V – Num.305 – Roma, 1° Aprile 1923.
  10. Ivi, Anno V – Num.297 – Roma, 4 Marzo 1923; Num.298 – Roma, 8 Marzo 1923. Gli articoli sono corredati da fotografie che mostrano graziose ragazze marsicane in costume d’epoca, figlie di importanti professionisti ormai asserviti al fascismo (nel folto gruppo, la didascalia evidenzia le signorine De Simone, Corbi, Resta, ecc.).

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