Primi tentativi di soppressioni degli ordini religiosi nella Marsica (1784-1786)

L’eversione della feudalità nell’Assemblea del governo

A sostegno di quanto si è sostenuto precedentemente, le prove per requisire i beni della Chiesa furono proposte già dal ministro Bernardo Tanucci. Infatti, alcuni provvedimenti  approvati dall’infante Carlo III di Borbone, risalgono al 1751, con l’espulsione dei Gesuiti e l’incameramento dei loro beni. Tuttavia, tra i vari motivi di malessere del clero andranno considerati anche la forte ingerenza dei feudatari locali in occasioni di nomine elargite ai loro accoliti per benefici e cappellanie; oppure, nelle pressioni esternate durante le deliberazioni delle Universitas; soprattutto, nelle denuncie anonime inviate al ministro del Culto, il cui ufficio ben presto fu invaso da una crescente documentazione di screditamento nei confronti di qualsiasi ordine religioso (monaci, sacerdoti e suore).

Oltretutto, per far fronte alle pesanti richieste del fisco borbonico, i comuni e le province periferiche cominciarono verso la fine del Settecento a chiedere la soppressione degli enti morali e delle corporazioni religiose che «ab immemorabili» erano padroni di considerevoli ricchezze, per incamerarne i beni nel proprio bilancio finanziario. Era pur vero, però, che la maggior parte delle comunità dei religiosi «che nei secoli avevano comunque svolto opere di assistenza religiosa e ospedaliera, avevano provveduto all’istruzione pubblica e alla trasmissione del sapere e dei beni di cui erano custodi, furono costretti a lasciare le loro case e furono sacrificati dal pragmatismo del governo». D’altro canto, dopo l’avvento dei francesi (1799) e poi a conclusione di provvedimenti emanati da Giuseppe Bonaparte (1806) e dal suo successore alla Corona napoletana, Gioacchino Murat, furono disposte in tutta la Marsica nuove leggi per la soppressione di tutti gli ordini religiosi con i loro beni e quelli baronali (1809). Tutto precipitò tra il 1866 e il 1867, quando venne dato un colpo finale all’incameramento dei beni dal nuovo governo italiano, trasferendo molti beni al demanio statale e ai comuni (1).

Tornando al periodo trattato (17 marzo 1784), Felice Antonio Nanni (vice conte e giudice dei feudi colonnesi) fu chiamato a dirimere un aspro contenzioso tra i frati del «Collegio P.P.delle Scuole Pie» avverso i due paesi di Massa Superiore e Inferiore. Scortato dagli armigeri baronali, dal mastrodatti della regia Udienza, seguito da alcuni amministratori e deputati comunali più i testimoni Fiore Eligi, Giovanni Di Giambattista Pietrangeli, il magistrato avezzanese raggiunse il convento. In realtà, i religiosi da qualche tempo non avevano più rispettato le volontà del suo fondatore Giovanni Blasetti che, dopo aver lasciato cospicue rendite, stabilì nel suo testamento la clausola di: «mantenere in Massa una specie di offerta per somministrare li medicamenti a cittadini poveri, pagare annualmente il medico che lo assiste; moderare le scuole, tenere due lampade accese». Nonostante ciò, i monaci, trasgredendo le ultime volontà del defunto, avevano contrapposto all’attuale erede dottor Don Francesco Blasetti, un accolito di Magliano dei Marsi. Quando la delegazione giunse al convento, il giudice Nanni reclamò subito i mancati pagamenti dovuti al Blasetti, com’era d’altronde stabilito dal lascito del fondatore. Con un’audacia sorprendente, i monaci, spalleggiati da padre Tommaso Cerbone, minacciarono di morte i rappresentanti. Di conseguenza e vista la mal parata l’amministratore del Colonna in qualche modo cercò di riportare la calma e, soprattutto, di convincere il frate a non eccedere nelle sue intimidazioni. In tutta risposta (comunicò il Nanni direttamente al re), padre Cerbone: «invece di ricomporsi fecesi a rispondere alla mia persona, anche con poco rispetto; cosicché per evitare li scandali, stimai espediente andarmene, come fecero ancora detti amministratori» (1). 

Nuovi episodi di anarchia e resistenza alle istituzioni statali permanevano nella Marsica. Il 16 giugno 1786, il convento dei Cappuccini di Celano fu definito dai suoi nemici: «un rifugio di gente discola, perché situato in un bosco lontano dall’abitato (un miglio dal paese)». L’esposto anonimo, invitava le autorità preposte a sopprimere subito il monastero. Nicola Ferrini e il padre provinciale Bonaventura di Raiano, a loro difesa, risposero al Preside aquilano (Don Giuseppe Paveri Fontana) con fermezza e decisione, affermando che l’edificio religioso era abitato da quattro sacerdoti più due laici, tutti, comunque, di «esemplare costume, di buon spirito, e buona morale cristiana»; inoltre, avevano sempre aiutato la povera gente dei casali tra Aielli e Cerchio e molto attiva era anche la partecipazione dei monaci alle processioni di Celano. Oltretutto, aggiunsero a loro discolpa che la maligna denuncia era stata inoltrata: «da un nativo di detta Terra, colla speranza di farsi padrone di buona porzione della Selva, e terreno donato al detto Convento dalli Signori Conti di Celano nella sua fondazione». Di conseguenza, sicuri di poter dimostrare i possedimenti con documenti alla mano, i religiosi smentirono tutte le accuse, ritenendole solo calunnie (2).

Quasi simile, un’altra vicenda, riguardante gli ordini religiosi di Tagliacozzo, quando alcuni cittadini sottoscrissero altra delazione per chiedere la soppressione del «Monastero di Donne Monache Benedettine, e tre conventi dei regolari, Cappuccini, Domenicani e Francescani» i quali furono definiti «inutili alla Repubblica, allo Stato, alla Religione, ma anche di sommo pregiudizio alla popolazione, ed alla stessa società». La dura contrapposizione denunciò anche le numerose discordie tra i diversi ordini religiosi: «perché uno non soffre la condotta dell’altro. Le annuali rendite dissipate a capriccio; le messe giornalmente prefisse si disfano; la chiesa divenuta una spelonca senza culto di opere Pie, senza l’esercizio del Coro, e senza li necessari Sacri arredi; li beni accensiti, e deteriorati; e si è dato mano anche alli argenti di sacrestia, coll’essersi questi impegnati». A tal riguardo, si inviò al re un referendum nel quale tutti i cittadini richiedevano la soppressione degli ordini secolari. Questi i risultati finali: ventiquattro «» e otto «no» (3).

NOTE

  1. M.Bellucci, Enti morali e corporazioni religiose soppresse (1423-1854), nota introduttiva, I (Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo). Le fonti consultate negli archivi di Stato di Napoli e di L’Aquila, sono: Ministero Ecclesiastico, Ministero delle Finanze, Patrimonio Ecclesiastico, Fondo del Preside, Intendenza Borbonica, Fondo Culto, Monasteri soppressi. Su molti aspetti critici della situazione si veda: R.Ajello, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel regno di Napoli durante la prima metà del secolo XVIII, Napoli 1961; Cfr., M.Rosa, Politica concordataria, giurisdizionalismo e politica ecclesiastica nel regno di Napoli sotto Carlo di Borbone, in «Critica Storica», 4, 1967, pp.494-531; R.Trifone, Feudi e Demani. Eversione della Feudalità nelle Provincie Napoletane, Società Editrice Libraria, Milano, 1909.
  2. Archivio di Stato di L’Aquila, Fondo del Preside, Affari Generali, Iª Serie, cat.27, b.17, fasc.394.
  3. Ivi, b.39, fasc.242.
  4. Ivi, b.39, fasc.247.

Leggi anche

Necrologi Marsica

Ezio Calisse

Casa Funeraria Rossi

Alfredo Mosca

Casa Funeraria Rossi

Ezio Calisse

Casa Funeraria Rossi

Alfredo Mosca

Casa Funeraria Rossi

Biasina Vittoria Di Cola (Biagina)

Casa Funeraria Rossi

Giosuè Liberatore

Casa Funeraria Rossi