Quell’8 settembre 1943…

di Maurizio Cichetti

Quando, intorno alle ore 18 e 45 dell’8 settembre 1943, nella Sala del Donchisciotte, al Quirinale, il re Vittorio Emanuele III, il maresciallo Badoglio, i ministri, i generali, stavano seriamente pensando di disconoscere l’armistizio appena annunciato dagli angloamericani (ma non ancora dall’Italia), appellandosi al fatto che, a loro dire, sarebbe dovuto essere reso pubblico il 12, toccò al più basso in carica in quella cruciale riunione, cioè al maggiore Luigi Marchesi, ricordare che non si poteva più tornare indietro né tergiversare ulteriormente, perché la rappresaglia degli alleati sarebbe stata, in questo caso, feroce. Era questo, insomma, il clima con il quale si stava per consumare una delle pagine più drammatiche e, per molti versi, avvilenti della storia d’Italia, una pagina che d’altro canto resta, da allora, fissata e riconoscibile solo dalla data, appunto l’8 settembre.

Scriverà Montanelli nella sua Storia d’Italia, introducendo il racconto delle febbrili e caotiche settimane dal 25 luglio all’8 settembre, che “durante i quarantacinque giorni il governo Badoglio visse non nell’equivoco, ma in una serie di equivoci. Combattè ancora -svogliatamente- gli anglo-americani, mentre ne cercava l’alleanza; professò fedeltà ai patti con i tedeschi mentre progettava di rivoltarglisi contro (…). Ebbe un’unica caratteristica univoca: fu il governo della paura. Paura degli anglo-americani, paura dei tedeschi, paura di un ritorno fascista e paura di una esplosione antifascista. Queste ambiguità trovarono espressione ad ogni livello della organizzazione politica e militare”.

Nel suo stile asciutto e privo di infingimenti, Montanelli riassume al meglio il pressapochismo, la sostanziale inadeguatezza dei vertici di un paese stremato dalla guerra e che già dai primi di agosto di quel 1943 aveva deciso di uscire dal conflitto e cercare abboccamenti con gli alleati. Una missione affidata al generale Giuseppe Castellano, che si rivelò non priva di ostacoli e di lungaggini, anche per un diffuso clima di sospetto che era presente tra i vertici delle forze anglo-americane e anche, va aggiunto, per quelle che si rivelarono poco produttive intromissioni, come quella del generale Giacomo Zanussi, anch’egli inviato (su iniziativa del capo del Servizio Informazioni, generale Giacomo Carboni) a trattare, innescando un legittimo sconcerto fra gli alleati. Una situazione che sfiorò l’autentica farsa quando a Zanussi furono recapitati i termini di quello che era il cosiddetto armistizio lungo, mentre Castellano era in possesso dell’armistizio corto, senza che nessuno dei due sapesse dell’altro…

Sta di fatto, comunque, che alle 17 del 3 settembre, a Cassibile, in una tenda militare, il generale Castellano firmò l’armistizio corto. Seguì la firma del generale statunitense Bedell Smith, colui sarebbe poi diventato, negli anni ’50, direttore della CIA. Era anche presente, ma non firmò, Ike Eisenhover, futuro presidente USA.

In un contesto scandito da urgenza e tensione, era poi subentrata, da parte italiana, la malriposta convinzione che l’armistizio sarebbe stato comunicato il 12 settembre. E invece, come si è visto, non era così. 

Erano, quindi, le 19 e 30 dell’8 settembre quando Badoglio entrò nell’auditorio O, per leggere il testo dell’armistizio concordato. L’Italia, come scriverà ancora Montanelli, “s’illuse che la guerra fosse finita”. In realtà non era così, e seguì un periodo drammatico e avvilente, a partire dall’indecorosa fuga del re e di molti ministri e dignitari da Roma. Una fase storica, in ogni caso, troppo spesso interpretata in modo univoco, come quella della disgregazione dell’esercito e della scelta di andare tutti a casa, quando invece, solo per ricordare un dato, furono circa 20000 i soldati italiani morti nelle settimane successive all’8 settembre. Così la storica Elena Aga Rossi, in un interessante volume, scrive che “è forse giunto il momento per uno sforzo di ripensamento che ci consenta di riconquistare un’idea unitaria del nostro passato, quell’idea che “ha a lungo artificialmente separato due Italie: quella vecchia dello sfascio dell’esercito e quella nuova della risposta antifascista. Esse invece si intersecano, e il punto di congiunzione è rappresentato proprio dal periodo caotico e confuso delle settimane che seguirono l’armistizio”.

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